Al cinema con i giovani 2011




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Ecco le pellicole che andremo a vedere e i testi che ci aiuteranno nell'approfondimento dei film e nel dibattito.
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13 OTTOBRE 2011
Io, loro e Lara


Genere: Commedia
Durata: 115’
Regia di: Carlo Verdone
Con: Carlo Verdone, Laura Chiatti, Anna Bonaiuto, Marco Giallini, Sergio Fiorentini, Angela Finocchiaro


Io, loro e Lara non è certo un capolavoro, pur risultando il miglior film di Verdone da anni a questa parte: peccato per le volgarità evitabili - più di linguaggio che di situazioni - e banalità di fondo su temi importanti; il dramma dell'Africa, la crisi di fede del sacerdote, che dal "continente nero" torna a Roma per cercare conforto nei superiori e che si trova invece immerso nei problemi di una famiglia sopra le righe E ' nella parte "positiva" questo prete non va oltre a un sano buon senso, un buonismo edificante. Niente di nuovo: da Carlo Verdone si possono pretendere divertimento (a volte) e buona direzione degli attori (ci sono comprimari, come Anna Bonaiuto, Marco Giallini e la già citata Finocchiaro, che strappano gli applausi), non profondità su temi che oltre tutto non padroneggia. Ma se la missione "romana" del sacerdote sembra un disastro, alla fine un simpatico colpo di scena ribalta prospettive che sembravano consolidate.
Il suo Don carlo rischia solo di far danni pur se animato da buone intenzioni. Ma l'aspetto interessante sta, , altrove: pur con il sentimentalismo che contraddistingue anche le sue opere migliori e meno grevi (e questa, nonostante alcuni soliti eccessi verbali, lo è), Verdone presenta alla fine un ritratto di famiglia che si ritrova "nonostante" i propri limiti, proprio perché si riconosce famiglia. Dove all'inizio tutti sono l'un contro l'altro, e ognuno pensa solo ai suoi interessi (alla sua "roba", soprattutto gli avidi fratelli che temono che il padre butti via tutti i soldi con la moglie/badante moldava), e dove l'arrivo della misteriosa Lara crea ulteriori tensioni. Ma alla fine, proprio grazie al "terremoto" Lara (molto più che agli interventi del povero prete, che pure ci ha messo del suo per migliorare le cose), ogni vicenda - seppur lentamente, e in maniere anche tortuose - va al suo posto. Ovviamente, nello stile della commedia e quindi con le sue esagerazioni: ma se i singoli dettagli di quella famiglia sono assurdi, il quadro d'insieme è di riconoscimento che l'individualismo gretto porta a tristezza e solitudine; e che riunirsi insieme attorno a una nuova, anche improvvisata, realtà familiare sia molto meglio. E non è poco, in tempi in cui si teorizza che la famiglia sia per sua natura luogo di crimini e nefandezze. Soprattutto, il cambiamento c'è, eccome: visibile, e anche visivo. Contrassegnato da quel rosso natalizio e gioioso, quasi una divisa di una nuova possibilità di vita comune.visivo. Contrassegnato da quel rosso natalizio e gioioso, quasi una divisa di una nuova possibilità di vita comune.



20 OTTOBRE 2011
Ogni cosa è illuminata


Genere: Commedia
Durata: 102'
Regia di: Liev Schreiber
con: Elijah Wood, Eugene Hutz


Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato, dei ricordi, della memoria. Una luce flebile, che sembra inghiottita dall'oscurità, o magari una luce accecante, talmente intensa da risultare insopportabile alla vista. Una luce, comunque, capace di staccare una storia dallo sfondo di un muro scalcinato, e di farla brillare. E' questo il tema fondante di "Everything is illuminated", che l'esordiente regista Liev Schreiber ha scritto basandosi sull'omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer. "Ogni cosa è illuminata" è un road movie, un viaggio negli abissi della memoria e in una terra che ancora porta le cicatrici di una profonda ferita. Jonathan è un ragazzo ebreo americano che si mette in viaggio per scoprire qualcosa di più sul proprio nonno, emigrato dall'Ucraina ai tempi della seconda guerra mondiale per sfuggire alla follia dell'antisemitismo. Il mistero è tutto racchiuso dentro una foto: il nonno ed una ragazza di nome Augustine, in un campo di grano. E un nome: Trachimbroad. Parola misteriosa, di cui nessuno sembra più sapere il significato. Ad accompagnarlo nella sua "rigida ricerca" c'è Alex, giovane ucraino che mastica un po' di inglese e che si è specializzato in tour commemorativi di ebrei americani alla ricerca delle loro origini, nei luoghi dove molti loro antenati furono uccisi. Alla guida dell'auto sgangherata, tra le colline gialle e verdi, rigogliose, c'è il nonno di Alex. Ufficialmente cieco. Ma un occhio che funziona non significa saper vedere e guardare. Jonathan e il nonno di Alex sono i due poli attorno a cui viene costruita la narrazione. Il giovane americano occhialuto è un collezionista di oggetti di famiglia. Un piccolo frammento può aiutare a tenere viva una storia, a ricordarla? "Ho paura di dimenticare": è questo il suo incubo. Gli occhiali dalle lenti spesse, che gli ingrandiscono gli occhi azzurri, sono la metafora della curiosità intellettuale, della voglia di scoprire. E la cecità del nonno di Alex? Tecnicamente, i suoi occhi vedono: vedono la strada, vedono il paesaggio, vedono le persone e l'amata cagnetta psicopatica. Ma l'occhio di un uomo non è solo quell'organo che gli consente di vedere il presente: è anche un archivio di immagini e di storie. Una memoria. E lui, invece, ha scelto di nascondersi, di scappare da un ricordo agghiacciante, di cancellare l'incancellabile. Ed è proprio mentre accompagna il giovane americano sulle tracce di Trachimbroad che i ricordi riaffiorano, dolorosi. Lui, ancora una volta, sceglie la fuga. La memoria, dunque, è il cuore di questa storia. La bellezza di questo film, però, sta soprattutto nelle sue contrapposizioni e nelle contraddizioni. Così anche la memoria può diventare pericolosa. E lo testimonia l'anziana sorella di Augustine, miracolosamente sopravvissuta alla follia nazista che ha spazzato via il villaggio ebreo di Trachimbroad. Vive in una casetta di legno, in mezzo ad un incantevole e sterminato campo di girasoli, fuori dal mondo, senza nemmeno sapere che la guerra è finita da 60 anni. Vive, o meglio, sopravvive. Nei ricordi. Come il giovane Jonathan, anche lei è una collezionista. In centinaia di scatole catalogate e incastrate meticolosamente conserva gli oggetti che gli abitanti dello shtetl (il villaggio abitato soltanto dagli ebrei) avevano sotterrato, prima di morire. Perché, prima o poi, qualcuno sarebbe venuto a cercarli. E magari, raccontandoli, sarebbe riuscito a farli rivivere. Ma collezionare oggetti non basta a ricostruire una storia, una memoria. Una cicala viva, intrappolata in un sacchettino di plastica, smetterà presto di cantare. Ci sono cose che non si possono collezionare: suoni, atmosfere, emozioni. Come conservare la memoria allora? È necessario uno sguardo attivo, capace di cogliere o di inventare le relazioni tra i vari frammenti delle storie. Come sembra suggerire la scena finale dell'aeroporto, il non-luogo per eccellenza del viaggio, che si popola di presenze perturbanti. Ed è proprio questa vivacità dello sguardo la chiave del film "Ogni cosa è illuminata". Un film piacevole, nello stesso tempo divertente e amaro, capace di mescolare l'ironia alla tragedia, scivolando lentamente da un piano all'altro. Un film anche coraggioso, che prova ad affrontare molti temi delicati e centrali per la nostra storia: dalla memoria allo sguardo, dalla necessità di raccontare alla follia della Shoà.



27 OTTOBRE 2011
Uomini di Dio


Genere: Drammatico, storico
Durata: 120'
Regia di: Xavier Beauvois
con: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin


Come recensione di questo film bellissimo, che narra le vicende del Convento dell'Atlante in Algeria penso che la cosa più utile sia consegnarvi il testamento spirituale di Padre Christian de Chergé priore del convento, rapito e morto con alcuni suoi confratelli. Un testamento, una consegna per costruire un mondo in cui le culture si incontrino

"Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l'unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me : come potrei essere trovato degno di tale offerta ? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato.
La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la "grazia del martirio", il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'islam.
So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.
L'Algeria e l'islam, per me, sono un'altra cosa; sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: "Dica adesso quel che ne pensa!". Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.
Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia, et totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!"

Insc'Allah

Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994
Christian"



03 NOVEMBRE 2011
In un mondo migliore


Genere: Drammatico
Durata: 113'
Regia di: Susanne Bier
con: Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm


In un mondo migliore intreccia la storia di due dodicenni e delle loro famiglie. Da un lato un ragazzino è vittima dei bulli della scuola, mentre suo padre, un "medico senza frontiere" idealista, è impegnato a salvare vite in Africa e sua madre porta avanti la separazione. Dall'altro, un bambino colpito dalla morte della madre sfoga il suo dolore nella rabbia contro il genitore rimasto e contro il mondo. Tra i due ragazzini si sviluppa un'amicizia che sfocerà in tragedia e che costringerà gli adulti a fare i conti con se stessi.
Ancora una volta Susanne Bier (autrice del bellissimo Dopo il matrimonio, con cui questa pellicola condivide molti temi) affronta, con un racconto "morale" e profondamente umano, il dilemma di uomini divisi tra il dovere nei confronti dei "figli degli uomini" e quello verso la propria famiglia, ma anche lo scontro tra spinta ideale del singolo e violenza del mondo. Una violenza che interroga nello stesso modo, si tratti di piccoli rais africani che si divertono ad aprire i ventri delle donne incinte o della violenza più domestica del bullismo scolastico; o, ancora, di quella frutto di un dolore che non si riesce né a sopportare né a condividere.
La regista danese riesce ancora una volta a dire, senza essere predicatoria o ideologica, qualcosa di molto importante sull'uomo e sulla società. Di fronte alla violenza e al dolore non basta un imperativo morale, per quanto sincero, un discorso o addirittura l'esempio più nobile e coraggioso. Anche l'uomo più buono e generoso del mondo finisce per scontrarsi con uno "scandalo" di fronte a cui il suo "dover essere" non lo sostiene e le idee non bastano. Ma l'errore e la tragedia, per quanto inevitabili, non sono l'ultima parola.
Alla fine solo un abbraccio e la presenza, ancorché fallibile, di un padre possono offrire la luce di una speranza non fasulla, proprio perché purificata dal dolore e dall'errore.



10 NOVEMBRE 2011
The social network


Genere: Drammatico, biografico
Durata: 120'
Regia di: David Fincher
con: Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake


Più che un biopic è una tragedia shakespiriana che Fincher dirige con il suo stile cupo, popolato di personaggi ambigui e contradditori come erano ambigui e contraddittori i tanti interpreti del suo cinema, da Seven fino a Zodiac e Benjamin Button. Strano, si dirà, che un regista di genere (eccezion fatta per Benjamin Button, Fincher ha diretto soltanto thriller spesso sconfinanti nell'horror) si sia dedicato alla vicenda, processuale e non solo, legata alla nascita e al successo di Facebook. E invece strano non è perché il film è una tragedia scura ambientata nei college e dormitori universitari. Una tragedia dove il delitto perfetto è commesso da un nerd, incapace, forse patologicamente, di rapportarsi col mondo che lo circonda. Il nerd è ovviamente Zuckerberg (perfetto il suo interprete, Jesse Eisenberg), genio solitario, segnato, anzi ossessionato da un desiderio di riscatto e rivalsa contro tutto e tutti, a partire dalla ex fidanzata. Soprattutto, condizionato da un ambiente, quello di Harvard, davvero un college degli orrori e della vacuità stando al film, dove conta chi ha successo e il metro del successo si misura nel numero di concubine. Ma - e qui sta la cosa più interessante del film - Fincher non la butta sul facile moralismo e non dipinge di bianco e di nero il suo film ma articola una storia in cui le vittime e i carnefici coincidono nella quale non condanna nemmeno Zuckerberg che ne esce fuori come un ragazzo disturbato e infantile, ma anche desideroso - e giustamente - di un rapporto significativo per la propria vita. Il problema per Zuckerberg e per gli altri ragazzi con cui lo studente ha a che fare (compreso il personaggio più "storto" di tutti, quel Sean Parker, confondatore di Napster, eterno bamboccio, emotivamente anarchico e che eserciterà su di lui un grande influsso) è la mancanza di un giudizio sul bene e sul male, cioè la mancanza degli adulti che praticamente nel film sono assenti eccezion fatta per il rettore di Harvard tanto ottuso quanto disattento alle esigenze dei suoi ragazzi.
E così la genesi di Facebook è tutta un gioco al massacro con protagonisti eterni adolescenti, ragazzi mai cresciuti. Capricciosi, egoisti all'ennesima potenza, killer (e qui torna il passato di Fincher) degli altri e di se stessi, ma freddi e incapaci di emozioni: più che di un capitalismo deviato in cui il Sogno Americano, nobile nelle origini, è diventato una corsa disperata per uscire dall'anonimato, questi ragazzi sono il frutto di un mondo in cui gli adulti hanno abbandonato il loro compito da anni, il loro compito di educatori, punti di riferimento, padri. Orfani con delle belle idee che paradossalmente li faranno conoscere al mondo, ma non gli faranno conoscere il mondo. Anzi forse glielo allontaneranno per sempre.



17 NOVEMBRE 2011
Il discorso del Re


Genere: Biografico, storico
Durata: 111'
Regia di: Tom Hooper
con: Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter, Guy Pearce, Jennifer Ehle


Sarà forse per compensare tutto il bailamme mediatico che avvolge i reali britannici, dalle le intrusioni nella vita privata alle disavventure familiari e istituzionali, il fatto è che il cinema inglese sa anche fare film che presentano la famiglia reale in quegli aspetti che, a noi comuni mortali, li fanno apparire molto meno privilegiati di quanto si possa pensare. È stato così per The Queen, che rivelava una Elisabetta ben lontana dalla freddezza con cui si pensava avesse vissuto la tragedia della morte di Diana; è così anche in questo Il discorso del Re, che rivela quanto Albert di Windsor, Duca di York (Colin Firth), abbia dovuto affrontare: una corona non voluta (dopo la rinuncia del fratello Edoardo VIII che preferì abdicare per sposare la divorziata Wallis Simpson), la II guerra mondiale e, argomento del film, una balbuzie in grado di terrorizzare colui che doveva rivolgersi all'Impero Britannico in giorni di grande tribolazione. Ai tempi la radio era il principale mezzo di comunicazione di massa e le prove che i sudditi di sua Maestà avrebbero dovuto di lì a poco affrontare nella guerra contro la Germania di Hitler richiedevano una presenza pubblica e una voce forte e sicura, un aspetto che mancava al giovane successore al trono, alla disperata ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo. Il rapporto tra il futuro Giorgio VI e un logopedista australiano (Lionel Logue, interpretato da Geoffrey Rush), è storico, e il regista Tom Hooper (già autore de Il maledetto United) accentua la differenza tra i due uomini, che non è solo di ruolo: Lionel è un ex attore australiano, molto poco avvezzo alle formalità abituato a dare e farsi dare del tu, cosa difficilmente concepibile per il Duca di York e futuro Re. Ma Lionel capisce che deve convincere il Re a fidarsi di lui, o entrambi falliranno. Fermamente certo che la balbuzie non sia una malattia congenita, Logue - poco a poco e non senza errori e battute d'arresto - riesce, come uno psicanalista, a risalire alle cause giovanili del blocco del linguaggio di Albert, e lentamente a ridargli fiducia. Determinante anche il ruolo della famiglia: la moglie Elizabeth (Elena Bonham Carter è quella che poi passerà alla storia come la Regina Madre) e le due giovani Elizabeth e Anna. Un film avvincente, educativo (chi dei nostri giovani conosce questo importante pezzo di storia europea?), girato anche enfatizzando i particolari che distinguono il microcosmo reale (con campi lunghi e riprese dal basso che accentuano una certa solennità), contrapposto alla vita quotidiana dei sudditi.



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